Andando in giro fra le bancarelle si trovano spesso realtà dimenticate ma di notevole fascino, come sanno tutti gli appassionati di oggetti d’antiquariato, di modernariato o di vintage.  Personalmente ho diversi interessi per ciò che è legato al mondo dei mercatini delle pulci, ma ciò che mi appassiona in senso assoluto sono i libri, meglio ancora se hanno come soggetto il mondo della fotografia. Recentemente, in una assolata domenica tipica delle ottobrate romane, al mercatino di Piazza Augusto Imperatore mi sono imbattuta in un volume che in un primo momento ha attirato la mia attenzione per il titolo: “Filippo Rocci e la fotografia pittorica”, poi mi ha attratta per il sottotitolo “Ritratto di gentiluomo con camera”, e infine qualcosa che lì per lì non ho saputo spiegarmi mi ha convinta ad acquistarlo; questo “qualcosa” mi rigirava fra cuore e cervello ma mentre camminavo con il libro in borsa non sapevo spiegarmi con precisione cosa fosse.

Giunta a casa ho riposto l’acquisto in uno scaffale e per un po’ non ci ho più pensato. Poi, dopo qualche giorno, l’ho ripreso in mano, l’ho risfogliato leggendo con attenzione l’introduzione e osservando bene le fotografie in esso contenute. Il lavoro di questo “fotografo gentiluomo” è stato riproposto al pubblico alla fine degli anni Ottanta del Novecento grazie ad un approfondito studio sulla sua opera, studio portato avanti dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali e  dall’Istituto Nazionale per la Grafica.

Filippo Rocci, nato nel 1881 e morto nel 1965, ha lasciato un’eredità grafica di circa settecento negative di vario formato: è un corpus che arriva fino agli anni Cinquanta del secolo scorso ma la cui parte più significativa è legata al periodo che va dal 1900 al 1911, ossia agli anni in cui aderisce alle istanze allora imperanti della fotografia pittorica, vincendo diversi premi e medaglie e ottenendo svariati riconoscimenti ufficiali che gli dettero una, se pur breve, importante notorietà.

In un primo momento svolge il suo lavoro  a Perugia, su un doppio binario: il reportage con scene di vita vera da un lato e l’analisi delle emergenze architettoniche e storico-artistiche più significative della città dall’altro. Lavora in modo estremamente personale e innovativo: porta la sua camera all’interno di chiese e palazzi fermandosi su particolari artistici o architettonici che svelano il suo gusto erudito e che all’occhio del turista frettoloso sarebbero invece sfuggiti. Contrariamente agli Alinari, il Rocci non ha la pretesa di stabilire gerarchie d’importanza o di isolare determinati manufatti per esaltarli come valore artistico assoluto; lui vede la città nella sua continuità storica ed architettonica e ha un modo di lavorare che lo avvicina a quello di un cronista. Si può dire che in un certo senso è un cronista per immagini perché tende a scrivere una microstoria della propria città mettendo in risalto, attraverso le sue fotografie, gli avvenimenti ritenuti più significativi della cronaca locale intesa come specchio ed evoluzione dei tempi. Così vediamo alcune sue foto del viaggio ufficiale di Vittorio Emanuele III per l’inaugurazione della Mostra di Antica Arte Umbra, dei raduni per il I Centenario garibaldino, della visita della regina madre, insomma momenti di realtà provinciale che si inseriscono nella storia di più ampio respiro, quella del “Paese-Italia”. Accanto a questi lavori, a partire dal 1909, si sviluppa la sua serie di cartoline illustrate dedicate a Fara Sabina, realizzate con un gusto profondamente diverso e formalmente vicino a quello più propriamente tipico della fotografia pittorica

Filippo Rocci, Gita a Granica, 1924, Fara Sabina, Rieti (Fondo Filippo Rocci, Collezioni fotografiche, Istituto Nazionale per la Grafica, Roma, inv. 833a)

Anche in questi lavori troviamo però un’impronta spiccatamente personale data dai controluce spinti, da una sensibilità tutta nuova per il paesaggio, dal gusto per i primi piani. Il dinamismo cittadino dei lavori perugini viene qui sostituito da una narrazione figurativa atemporale, con spazi vuoti sapientemente riempiti da sparute presenze umane e la campagna diventa l’elemento principe del paesaggio pittorico espresso in forma di fotografia.

Lui stesso si autodefinisce fotografo dilettante, ma non dimentichiamo che la fotografia pittorica (diffusasi in Europa a partire dal 1889) aveva già da tempo portato la figura del  “dilettante” alla ribalta come protagonista  della vicenda fotografica fra Otto e Novecento. In realtà  Filippo Rocci si era fatto le ossa, per così dire, attraverso i reportage delle cronache cittadine di Perugia ed aveva affinato la tecnica con la quotidiana palestra delle fotografie di cronaca locale; attraverso questo esercizio continuo riuscì poi ad assumere una padronanza più completa e sofisticata dei propri strumenti.

Nel 1899 Ernesto Baum, in un distinguo fra professionista, dilettante ed amatore, indicava alcune variabili fotografiche fondamentali e sottolineava che lo scatto, ossia la scelta del soggetto e della sua inquadratura, è la prima di queste, cui fanno seguito la scelta della luce, quella degli agenti chimici per lo sviluppo e le operazioni di stampa, considerate come il momento clou ai fini dell’espressione (infatti, per dirla con Robert De La Sizeranne, se “il negativo è opera della macchina… la stampa, come lo stile, sono opera dell’uomo”).

Riguardo alla stampa, le lastre del Rocci nella quasi totalità dei casi presentano forti interventi manuali che però non alterano l’ideazione dell’immagine fissata al momento dello scatto; in questo riprende la filosofia di Peter Henry Emerson (teorico inglese della Fotografia Pittorica), il quale, pur riconoscendo al fotografo ampi margini creativi, rimane fedele al mito ottocentesco dell’arte come imitazione del reale.

Nel 1910, dopo aver vinto la medaglia d’oro dell’Esposizione di Spoleto, Filippo Rocci partecipa al concorso indetto dalla rivista milanese “Il Progresso Fotografico”, piazzandosi al primo posto con una serie di fotografie pittoriche. I temi privilegiati sono quelli del paesaggio di ampio respiro, del paesaggio con piccole figure e della scena di genere di ambientazione familiare o agricolo pastorale. Come spiega molto bene Marina Meriglia in una nota introduttiva, “i materiali fotosensibili dell’epoca, caratterizzati oltre che da un forte contrasto anche da una maggiore ed eccessiva sensibilità al bleu rispetto ai colori bruni, avevano, fino al 1910, scartata come impresa impossibile l’inquadratura di paesaggio che comprendesse ampie zone di cielo: il pericolo era quello, inaccettabile sotto il profilo espressivo, di uno scarso equilibrio fra gli elementi compositivi del rettangolo fotografico che, come indica tutta la fotografia di documentazione ottocentesca, risultava chiaroscuralmente definito nella sola parte inferiore, mentre quella superiore rimaneva vuota, cioè totalmente priva di segni.”

Ultimo giorno di trebbiatura, 1957 (Coll. Federico Bandiera, Bagnoregio, Viterbo)

Un’altra peculiarità della scena di genere creata da Filippo Rocci (quello della scena di genere è un tema  particolarmente caro alla fotografia pittorica), è che riprende sempre, con tratti di grande intimità, scene vere di vita vissuta dal quotidiano della natia Fara, in cui aveva fatto rientro nel 1910. In queste sue composizioni non ricorre mai a modelli professionisti messi in posa per l’occasione e non si avvale di abiti particolari né di ambientazioni sceniche artefatte. Tutto è documentato senza drammi o infingimenti e il ricco e il povero non sono il buono e il cattivo, ma pellegrini ed amici fraterni che insieme percorrono lo stesso viaggio chiamato vita. Non guarda mai alle classi subalterne con distacco o con alterigia: nel suo lavoro viene fuori il gentiluomo (da cui il sottotitolo del volume).

Con il passare degli anni il mondo cambia e muta  anche il microcosmo di questo fotografo di provincia: a Fara, come altrove, gli anni Cinquanta segnano la crisi e la fine di un mondo legato alla cultura, ai modi e ai ritmi di vita di un’economia essenzialmente agricola.

Negli anni Sessanta invia per l’ultima volta le sue immagini più famose a un concorso fotografico ma le vede respinte: la delusione ha il sapore del sale. Si spegne di lì a poco e il suo lavoro finisce nell’oblio. Si comprende così perché il Rocci più famoso dell’immaginario collettivo è un altro, è Lorenzo (ed ecco spiegato quel “quid” che mi aveva inconsciamente attratta quando vidi il volume sulla bancarella): perché quel Filippo Rocci gentiluomo e fotografo altri non è (era) che il fratello di Lorenzo Rocci, proprio quel Lorenzo Rocci il cui nome chi - come la sottoscritta - ha studiato al liceo classico conosce molto bene poiché è l’autore del vocabolario di greco, quel tomo pesantissimo che almeno una volta al mese per cinque lunghi anni ci siamo portati dietro durante le versioni in classe e le cui sottilissime pagine abbiamo sfogliato durante i compiti a casa. Insomma, Filippo Rocci altri non è che il fratello del Rocci per antonomasia, o meglio, il Rocci per antonomasia aveva un fratello che lavorava in banca ma che faceva anche il fotografo.