Se parlando di questa foto dicessi che è di Cartier-Bresson, io son pronta a scommettere che la stragrande maggioranza di voi ci crederebbe, almeno di primo acchito.

Zissou dans le vent de l’hélice d’Amerigo – Buc, 9 novembre 1911

Invece è di Jacques Henri Lartigue, che ora è considerato come uno fra i più grandi fotografi del secolo scorso, ma che ha dovuto attendere molto prima di esser riconosciuto come tale; e quando, durante un suo viaggio negli Stati Uniti, venne scoperto da John Szarkowski – all’epoca giovane conservatore del Dipartimento di Fotografia del MoMa – aveva ormai passato la sessantina e fu lui stesso il primo a sorprendersi, dato che fino a quel momento si considerava soprattutto un pittore, più che un fotografo.

Nel 1963, all’età di sessantanove anni, Lartigue espose per la prima volta alcune sue foto al pubblico e lo fece al MoMa di New York; nello stesso anno la rivista LIFE gli dedicò uno speciale in cui pubblicò il suo portfolio. Il numero annunciava la morte del Presidente Kennedy e dunque fece il giro del mondo e fu così che, dall’oggi al domani, Lartigue divenne uno dei più grandi nomi della fotografia del XX secolo.

Jacques Henri Lartigue è cioè una di quelle persone di cui il mondo si è accorto, ma non subito, ed è forse per questo che inizialmente sono stata attratta dall’esposizione presentata quest’estate al Teatro della Fotografia e dell’Immagine a Nizza: sono stata attirata da una speranza, quella che non è mai troppo tardi perché il mondo si accorga di noi.

Dunque sono entrata a vedere questa mostra mossa più che altro dalla curiosità, ma quando ne sono uscita ero davvero entusiasta di ciò che avevo visto.

Alla fine di ogni anno, fra me e me, penso alle mostre viste e stilo mentalmente una classifica:  “Jacques Henri Lartigue. Un monde flottant” è sicuramente l’esposizione più bella che io abbia visto in questo 2016. L’anno ancora non è terminato, penserete voi, ed è vero, ma io son certa che, al più, potrò trovare un’altra esposizione altrettanto interessante e bella, ma non più bella e sicuramente non così emotivamente ricca come questa di cui vi sto parlando ora.

Seguendo il percorso dell’esposizione, ci si trova davanti a fotografie di una bellezza elegante, sia nel bianco e nero che nelle foto (meno numerose) a colori, ma soprattutto si fa la conoscenza di una personalità eclettica e affascinante, perché Lartigue è stato un fotografo, ma anche un pittore e, a suo modo, uno scrittore, dal momento che ha lasciato un’immensa opera diaristica.

Iniziò a fotografare quando era un bambino poiché suo padre, nel 1902, gli regalò una macchina fotografica per aiutarlo a distrarsi e a passare il tempo durante una malattia che lo aveva colpito e costretto a rimanere a lungo a letto e poi in convalescenza.  Jacques era figlio di Henri Lartigue, la cui famiglia, all’inizio del ‘900 era considerata come l’ottava fortuna di Francia.

Questo bambino timido e delicato aveva un’ossessione: trattenere il tempo che fugge via. La fotografia fu per lui un modo di fermare l’istante, ma non gli bastò: come era possibile dire tutto e trattenere tutto in un’immagine di qualche secondo? Probabilmente fu per questo motivo che decise di scrivere anche un diario (e continuò a farlo per tutto l’arco della sua lunga vita, lasciandoci una mole immensa di volumi che sono una testimonianza preziosa di un’epoca, quella del Novecento, che lui ha percorso dall’inizio fin quasi alla fine).

Dopo la Grande Guerra la fortuna paterna cominciò a ridursi notevolmente e Jacques iniziò a prendere in considerazione l’eventualità di guadagnarsi da vivere facendo il pittore; infatti ottenne anche diversi riconoscimenti e fece alcune importanti esposizioni, ma non smise mai di fotografare.

Siamo davanti ad un artista complesso e direi completo, questo è ciò che personalmente più mi affascina della sua personalità.  Ma non solo: guardando le sue foto sono rimasta colpita dalla sua eleganza e dalla sua modernità. Eleganza e modernità sono le cifre che lo caratterizzano e che, sulla lunga distanza, lo hanno portato al successo, sia personale che mondiale.

Scrivere, dipingere, fotografare, queste cose mi consolano di tutto, scrive in uno dei suoi diari: tenere un diario, dipingere e fotografare sono stati per lui il modo di cercare di fermare i ricordi, poiché poteva essere felice solo guardandolo, un ricordo, cercando cioè di trattenerlo il più a lungo possibile.

Non è forse quello che spesso cerchiamo di fare un po’ tutti noi? Ecco, Lartigue è questo: è uno di noi, è moderno, nonostante sia un uomo – e un fotografo – di un tempo che non c’è più.  Non c’è più ma continua ad esistere nelle cronache dei suoi diari e nelle sue foto.

Percorrendo i corridoi dell’esposizione e guardando la mostra ci ritroviamo catapultati in un viaggio attraverso il Novecento: per una buona mezz’ora riviviamo, attraverso gli scatti di Lartigue, l’eleganza degli anni ruggenti, la spensieratezza delle vacanze, quando ancora erano vacanze e non lavori forzati del divertimento di massa come sono invece oggi; fluttiamo in un mondo che non c’è più, che sappiamo che una volta varcata la soglia del museo non troveremo più, ma finché siamo lì, ad osservare il suo lavoro, ci sembra di sentire il rumore delle prima auto da corsa lanciate a tutta velocità o lo sciabordio delle onde mentre guardiamo i lungomare di Cap d’Antibes, o ancora, il chiacchiericcio delle bambinaie e le risate dei bambini mentre osserviamo le donne, belle ed eleganti, che Lartigue ha fotografato durante le passeggiate nei parchi di Parigi.

Guardare le sue foto significa davvero rivivere un’epoca che abbiamo solo sognato, magari leggendo i romanzi di Fitzgerald o di Jack London.

Gli anni della spensieratezza e dell’illusione che tutto fosse ancora possibile sono lì, davanti a noi e non abbiamo bisogno di chiudere gli occhi per immaginarli, ci basta guardare i bianchi e neri di Lartigue per viverli anche noi, perché una cosa è certa: il tempo, lui lo ha davvero fermato (per un breve momento, il momento della nostra visita alla sua mostra, però lo ha fermato).

E di questo dovremmo essergli grati, oltre che del fatto che ha donato tutti i suoi archivi allo Stato francese perché, attraverso la divulgazione del suo lavoro di una vita, permettesse a tutti noi di rivivere quello che è sicuramente stato uno dei secoli più ricchi di avventura di tutti i tempi: il Novecento, il mondo flottante, quello che ora non c’è più e che molti di noi (compresa la sottoscritta) rimpiangono.

Data di pubblicazione: settembre 2016
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