Giuseppe CarrieriCosa hanno in comune un sempre affollato Monaldo di Tokyo con la reception di un albergo lussuoso di Belgorod in Russia? E cosa avvicina il Boom Boom Bar di Phuket in Thailandia, ad alta concentrazione di sbracciati turisti occidentali, con una elegante chiesa di Miskolc, in Ungheria? Apparentemente nulla, è evidente che si tratta di luoghi distinti tanto per latitudine geografica quanto per classe di frequentatori abituali. Eppure gli spazi sopra elencati sono vicini, o meglio sono resi tutti vicini grazie all’occhio delle webcam che li affianca nel grande mosaico per pixel che è la rete e in cui noi li abbiamo scoperti.

Essi non sono che panorami di “spycam” installate sopra le nostre teste, scenografie rubate per essere proiettate in tempo reale nella galattica caverna del mondo dei nostri monolocali affittati a caro prezzo.

Ammetto che mi piacciono questi quadri di habitat “inessenziali” perché, innanzitutto, sono innominabili desideri di normalità. Mi spiego meglio.

Sono una sorta di risposta pacifica a quella pulsione d’interruzione della convulsa frequenza delle cose che ci vanno contro, l’ingenua difesa di pensarci catapultati lì dove apparentemente niente accade, e qualcosa (a volte) succede. Le “spycam” hanno successo perché elencano moviole di piccole evasioni covate sotto le nostre coperte, ti danno l’idea di essere qui e, comunque, altrove, con uno sbalzo che è diverso da quello irritato dai rettangoli televisivi o videoludici. Non vi è nulla di straordinario in quello che queste camere riprendono, anzi, semmai queste si configurano esattamente come dispositivi dell’(an)estetica della noia.

Nonostante questo, la gente li osserva (e si lascia osservare), forse beandosi dell’idea di una vita eternamente filmata in cui noi, quando vogliamo, possiamo (ac)cedere (o accadere). È una multimedialità cartolinesca dove scompare l’evocazione del ricordo del viaggio mandato in orbita con il francobollo, e dove non resta altro che un frame instancabile, inesauribile in cui, paradossalmente, ci si sente sempre a “casa”.

Forse tutto questo può sembrare un’acerba esasperazione del fenomeno, ma allora quale ragione spinge 2.308 persone a “likkare” l’oblò di un ufficio qualunque di Memphis in visione all day long? Perché decine di migliaia di persone si concentrano con ansia sull’apertura di due porte qualsiasi all’interno di uno studio architettonico di Utrecht?

Trovo che nel seguire queste immagini-finestre, questi paesaggi-appartamenti, queste web-camere o, meglio, web-stanze dove nulla resta escluso, nella mistica anonimia dei nostri (non)luoghi, sia da registrare un elementare procedimento di costante immedesimazione con la folla di gente che transita nell’ovunque del mondo e che, da soli, noi ci sentiamo di rappresentare, scambiando le nostre scrivanie per dei tappeti volanti pronti a condurci dove vogliamo (e con chi desideriamo).

Sono spiragli di finestre, certo, ma non è forse questa un’ennesima chiara conferma come questa società non sia altro che una somma di individui che si affacciano al posto di vivere? Fanno bene - fanno male questi screenshot della virtualità geografica che a vederli bene sono davvero l’espressione ricercata dei nuovi innumerevoli osservatori (e spioni) digitali. Ma di ben altro voyeurismo si tratta.Il panorama, qualunque esso sia, è ormai un oggetto da perlustrazione estinto per sempre, poiché nel mappamondo della contemporaneità (che si clicca e non si gira più con le dita) non esistono che sketch di lungomare e piazze; i territori svaniscono nella colata lavica di angolazioni e pareti da cui osserviamo confini e frontiere non di nazioni, ma di condominii e rettilinei.

Questi volumi di pseudo-location si dichiarano per quel che sono, ovvero comodi buchi di serrature en plein air dove si recupera la privacy dei luoghi. Affascinati dalle promesse del turismo o dalla sciccosa patinata copertina dei manifesti, in fondo, abbiamo dimenticato che la vera forza dei luoghi non è nella loro bellezza in vendita ma, piuttosto, nella loro anonima verifica quotidiana.

I bagni pubblici con quelle scritte volgari e i loro odori acri, le verande illuminate, i marciapiedi sporchi di lattine, le sale d’attesa impolverate, i pianerottoli umidi, il palazzo di fronte a noi… sono questi gli spazi a cui apparteniamo, sono le trame delle nostre storie, e anche se ormai le sorvoliamo più o meno inconsapevoli di finirci dentro, sono questi i veri territori che ci dicono cosa siamo e dove andiamo.

Le “spycam” scommettono su questa familiarità ignota ed è normale che migliaia e milioni di utenti si “incantino” a non guardar nulla, perché in essi ritrovano possibili se stessi, forse fantasmi di vite trascorse e abitate nella distanza, più semplicemente una compagnia.

Queste webstanze, all’interno della solitudine, sono una sorta di rielaborazione delle vecchie nature morte. Anche qui qualcosa di inanimato prende imprudentemente vita, non nella grazia di pennellate e astute prospettive, ma nella pazienza del nostro continuamente cercare un senso, lì dove non vi è che il nulla.

Le “spycam” ci insegnano questo: la gente non si stanca a guardare ciò che ha l’aria di essere immutabile, forse proprio perché, in fondo, spera a sua volta di essere vista così da qualcuno. Questi quadrati che celebrano l’impossibilità della Storia, ma la sola possibilità del Frammento, non sono occhi nostri rivolti all’esterno, ma, in verità, un profondo sguardo puntato sul nostro più privato modo di vedere (e vivere).

Come quei due innamorati che, ovunque vadano in vacanza, cercano le webcam dei luoghi visitati per finirci dentro e rimanere impressi nella memoria illimitata di quella città e dei suoi spettatori. Si baciano e, nel tempo di download dell’immagine, s’iscrivono nel panorama, si fanno soggetto e oggetto di una visione effimera. Solo chi ha pazienza di guardare, li troverà.

Non esistono più le storie, ma solo le particelle di vecchi racconti, molecole di baci come quelli, i tentativi irripetibili di momenti che sono sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno vede.

Solo chi resiste alla noia, scopre la verità dei luoghi.
Forse, a questo servono – profondamente – le “spycam”.

Non vi è più né contemplazione estatica della Bellezza né sbirciatina pornografica della vicina denudata, ma solo una condizione d’esistenza plurale e parallela, una quinta stagione del nostro tempo, dove ogni cosa si costruisce con l’alfabeto dei luoghi che siamo o che vorremmo essere. Con i nostri passi che tante volte fanno tremare le dita dei nostri occhi.

Per esplorare il mondo delle spycam consigliamo il sito: www.opentopia.com


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