"Chi desidera la fortuna deve venerare il Potere dell’Illusione”
(Maya)

"Seguitemi, vi mostro come nasce il mondo”, ci fece l’indigeno, con la bocca spalancata e un coltello di pietra coperto di piume. “Vi avverto, però, niente fotografie”. Poi espettorò un ennesimo proiettile dai suoi bronchi malati e proseguì, come se nulla di così serio fosse stato mai detto.

Iniziò ovviamente a farsi sentire una certa febbre dinanzi a quell’invito così ardito e, per quanto la nostra marcia fosse tutt’altro che trionfale a causa del continuo impiccio con cui litigavamo tra fanghi e pozze, il cammino continuava a essere tutto sommato reale, fatto di linee e poche deviazioni, in mezzo a una schiera di alberi da cui crescevano amuleti. Tra piccoli roghi e silenzi diversi, l’indigeno ci guidava sereno e indicava la strada da seguire con quel suo divertito modo di fare: “lì, lì” – diceva - come se la direzione del quartiere della Creazione portasse più che al mistero dei misteri, al segreto di una giostra rinvenuta per caso tra le macerie. Noi, in retrovia, apparivamo sempre più pallidi, con le borracce secche e le maniche tirate giù per difenderci dalle zanzare; eppure, per quanto ogni vibrazione di quel passaggio ci stesse mordendo, stentavamo a credere che fossimo finalmente giunti al traguardo: mancavano ormai pochi passi (li avremmo contati da lì in poi, e furono cinquantadue) alla palude da cui proveniva, probabilmente inzuppato di merda, il frammento di dio. Nessuna presenza di esosi acceleratori di particelle, nessuna fantasiosa rotta di collisione tra materia e antimateria avrebbe potuto riprodurre quanto la pace di quella siepe evidentemente testimoniava. Iniziavamo a intuire che la prima scintilla cui avremmo assistito non si sarebbe innescata dal cortocircuito interplanetario di una stella gigante, né tantomeno tutta quella perfezione sarebbe sgorgata dalle mani di un umile Creatore che aveva bisogno di un settimo giorno per riprendersi dalla fatica. Niente di tutto questo.

L’indigeno ci fermò per segnalarci l’arrivo e strizzò gli occhi, come per chiudersi il sipario; infine, rivolgendo i palmi verso il cielo, ci invitò a osservare quanto ci stesse attorno. Noi, allora, confidavamo nell’apparizione di una fiamma, anche meno, un riverbero, un qualcosa da cui quel buio pesto potesse scricchiolare, rivelandoci l’atteso meccanismo dell’inizio; ma dagli angoli dove l’indigeno ci aveva trascinato, la sua affascinante promessa si rivelò presto come una trappola, anzi peggio, la minaccia di un’illusione. Niente, infatti, dava idea di poter cominciare, tutto semmai ci appariva come un’opera conclusa, dipinta nella sua interezza unicamente fosca, come da una matita pesante che ha consumato la china di secoli per il più immane disegno di una tenebra. Lasciammo intendere chiaramente la nostra delusione e, senza la costruzione di un dialogo, ci limitammo a scuotere indice e pollice come per chiedere: “niente, non si vede niente?”. Ma lui, l’indigeno senza torcia e lampadine, rispose a quell’interrogazione ritornando a orientare le dita verso qualcosa che era attorno, ma che l’aria non rivelava. Quale era, dunque, l’origine del mondo di cui quell’uomo ci parlava? Era questa manifestazione in cui non c’era che il niente? No, non poteva essere, forse era stato tutto un equivoco linguistico o forse, più correttamente, quello era il suo modo di prendere in giro la nostra ingordigia di visitatori occidentali. Visitatori (o spettatori) che si prosciugano i portafogli, non per vedere qualcosa di veramente nuovo, no, ma solo per avere conferma di ciò che era parso di sapere (o di vedere). D’altronde, perché io ero lì? Chi e cosa mi aveva spinto dall’indigeno se non l’immagine di un volto reperita su Internet? Eppure c’era sempre qualcosa che volevo di più, di più di quanto non avessi già abbastanza rubato nella mia controra di segugio di altre scene. Sì, lo ammetto, tutto questo passava confusamente nella mia mente, ed era da accettare ormai l’idea di aver travisato la missione in cui mi guidava l’indigeno. Di aver sbagliato nel chiedere di più.

Ci accucciammo pertanto con l’aria di chi da un lato provava a continuare a capire e dall’altro sbuffava, contrito, per essersi ritrovato in una stanza sgradita dalle porte nascoste. L’indigeno, intanto, si spalmava il corpo di quel buio assoluto, come fosse pomata, e pareva non curarsi troppo del nostro disappunto, insensibile al nostro attacco di sconforto verso l’imbroglio che ci aveva teso. Di quale mondo stava parlando? D’un tratto, avemmo la sensazione che sopra le nostre teste ci fosse un pavimento in cui della gente andava scalciando, era proprio un suono verticale, dall’alto, ma anche di questo non riuscivamo a carpire niente. Ci rialzammo con i pantaloni già sporchi e provammo a spiarci nuovamente attorno per capire se qualcosa iniziasse, ma il castigo notturno era inflessibile, ci negava ogni perlustrazione e coordinata. Lentamente l’indigeno, che aveva iniziato a pregare con le mani giunte innocenti di un bambino, si fece affiancare da altre ombre di cui con fatica fabbricavamo i contorni: certamente c’era una donna bassa e poi ancora un’altra, e un uomo dall’andamento zoppo, e un bambino, e un nuovo bambino, e un terzo bambino, e le anime aumentavano, crescevano in quella vasca, riempivano la zona, con la placida mobilitazione di un fiume che ha trovato finalmente un giusto mare. Lo sfondo tuttavia non s’intaccava, ad eccezione del passaggio di alcune zanzare da cui ogni tanto assumeva delle impercettibili striature grigie. Sin qui non avevamo posto nessuna domanda esplicita alla nostra guida, ma quel raduno così ben ponderato ci sembrava potesse essere una buona scusa per pretendere un chiarimento, per ricevere un altro annuncio. Fui proprio io ad avvicinarmi, un po’ stufo, ma con ancora addosso la speranza di una rivelazione e, servendomi della preziosa collaborazione del mio traduttore, limitai i miei dubbi ad una sola questione, dalla cui risposta non mi aspettavo più tanto un’informazione, quanto un risarcimento. L’indigeno, con la sua bocca grande da cui talvolta sembrava venir fuori una sorta di mucillagine, mi tese uno sguardo che aveva la forza di una catena e che, nel buio, si dichiarava voce. “È incredibile quanto è grande il mondo. Sai, i primi uomini del villaggio, quando tutto fu fatto, non andarono da soli a vederlo, ma chiesero ad altri di venire con loro. Un po’ come io ho fatto con voi.” Poi mi prese per mano e mi portò avanti, sotto l’aureola di un albero. raccolse una foglia bellissima, una foglia che pareva disegnata, di cui non dimenticherò mai l’elegante livrea quasi arancione e le venature rosse; una foglia grossa che si teneva ancora addosso, chissà con quale forza, una noce di rugiada. “Lo vede il mondo? (e mi indicava la foglia). Dobbiamo essere almeno in tre, quattro, cinque, per poter vederlo. Uno da solo non ce la fa."

Così mi parse che quel buio, di cui avevo temuto l’inganno e a cui avevo inconsciamente partecipato in una suggestiva riunione di occhi, era stato invece un dono superiore, un attimo condiviso. E, mentre io, tediato dall’effetto, alla ricerca dell’evento, agognante l’immagine, mi ero messo a sedere, il mondo, come la sua prima volta, come tutte le notti, anche quella notte, al buio era nato. Se potesse mettersi per iscritto un verso, una strofa o un poema per dire cosa sia davvero la Genesi, allora non potrebbe che essere la trama di quel niente scrutato in gruppo. Attesi l’alba vicino all’indigeno, al mio traduttore e al mio migliore amico, perché stentavo a credere che, una volta tornata la luce, qualcosa fosse effettivamente avvenuto. E per quanto straordinario fosse il pensiero, immensa era la visione.

Contavo di dedurre finalmente per bene la direzione di quelle dita “lì, lì” da cui spuntava magnifica l’illusione, nella sua trapunta di nascondiglio, quando il mondo si spoglia celato, e celato ritorna a respirare. Ma quel buio aveva limato lo stato del mondo, lo aveva rinfrescato, perché è di nascosto dai nostri occhi, nel silenzio di qualcosa che non si vede, che il mondo ripetutamente nasce. È di nascosto che i fiori crescono nei nostri prati o giardini. È di nascosto, mentre noi dormiamo, che la luna ingravida le donne innamorate e richiama a sé le onde distratte. È di notte, invisibile, che la sabbia molle si fa matura e concima il mare. È dentro un buco fondo che si ripara il vento o si raccolgono le piogge prima di cadere. È dentro il mistero di qualcosa che il muschio umido s’insinua negli alberi e ne fa per loro un vestito nuovo. Ed è condizione di ogni cosa, questo generarsi senza farsi vedere.

“Noi non vogliamo la luce, anche se tutti ci convincono che la nostra vita migliorerà”, mi confida l’indigeno, a bassa voce mentre, tra i capelli, mi lascia un alito d’erba. “A noi serve il buio, altrimenti non vedremmo più il mondo”.

Erano le primissime ore di una bella mattina. Tutto era nuovo, tutto brillava come uno specchio. Le fonti profumavano d’acqua, le nuvole impazzivano in cielo. Io mi tenevo sempre affianco la mia compagnia, cercavo il più possibile di non rimaner più solo, a pensare, a creare deduzioni, a studiare le cause e gli effetti. Uno da solo non ce la fa.

Poi ripresi il cammino e lasciai quel villaggio, e dopo qualche giorno lasciai anche quel Paese e salutai a mio modo il buio; iniziai a rimpiangerlo, sapevo che ne avrei perso l’ora buona, che forse lo avrei solo imitato da qualche altra parte, oltre i gate e i metal detector, dentro il ricamo di una foglia conservata per ricordo. Lei giaceva nelle tasche e nella mente, e sorridevo ripensando ai fisici di Ginevra che fanno esplodere atomi ed elettroni, dentro macchine grandi come una foresta mentre, in notti come queste, da una semplice foglia, al buio, verrà prima fuori una montagna, poi un fiume, il freddo, un girasole, la luce piccola con cui s’illumina la cesta d’ un bambino.

Non so se Google Maps riuscirà mai a rendere conto del posto dove sono stato, spero di no, perché il mondo non è semplicemente una geografia da conoscere, ma una storia in cui perdersi. Vorrei solo che nessuno scienziato insista a portare la luce nelle ragnatele di quei torrenti, tra quelle dune di bambù, in mezzo a cime dove i lampioni non sono che occhi di libellula. Se andasse proprio così, non ci sarebbe che un epilogo. Finirebbe per spezzarsi presto pure quel residuo fondo naturale che da qualche parte ancora sopravvive negli uomini e secondo il quale, per ascoltare la Creazione, non basterebbe altro che unirsi in preghiera, al cospetto di un buio, in attesa del passaggio di una foglia. Non ci sarà esplosione, non un terremoto né una marea, sarà solo tutto un grosso schermo scuro. Quindi, come di norma, il giorno tornerà a splendere, ma sarà troppo tardi cercare di capire, trovare spiegazioni, risalire alla nostra origine. Allora non si potrà far altro che accontentarsi di scoprire tutto ciò che in verità già da sempre esiste. Ovvero, credo, il resto di niente.

PS: Qualche giorno fa, sono inciampato involontariamente tra le righe di un articolo. E per un attimo ho sorriso, perché davvero il buio sa arrivare lontano.


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