Mosè FranchiConversare di fotografia con Mosè Franchi è probabilmente il modo migliore per rendersi conto di come uno scatto sia semplicemente un punto intermedio di un lungo percorso creativo, culturale, tecnico e narrativo; e di come ogni volta che impugniamo la nostra fotocamera preferita non facciamo che metterci in relazione, consapevoli o meno, con un piano nel quale la comunicazione visiva va ben oltre il “qui e ora” del soggetto ripreso inserendosi in un contesto ben più complesso e coinvolgente di quanto appaia a occhi frettolosi. Approfittiamo della recente pubblicazione di un suo libro per affrontare con Mosè - fotografo e storico della fotografia, autore, giornalista, docente e professionista del settore con oltre vent'anni di esperienza in Canon Italia alle spalle - alcune tematiche di estrema attualità in un mondo che sa costantemente attirare a sé nuovi cultori ma che altrettanto facilmente perde coloro che vi si inoltrano privi di mappe e bussole adeguate.

Come spesso accade, la nostra conversazione prende piede da una valutazione dell'impatto che la tecnologia digitale sta tuttora avendo sul settore fotografico. Sono ormai trascorsi quasi due secoli dai primi esperimenti di Niépce, eppure sembra che esista una generazione di fotografi che considera l'era pre-digitale come qualcosa di lontano, indistintamente avvolto dalle nebbie del tempo.

Mosè Franchi: La tecnologia dà vita a dei veri e propri punti di non ritorno dei quali l'uomo non può fare a meno. Prendiamo ad esempio il personal computer, che ha permesso di forgiare molti nuovi scrittori fornendo semplicemente uno strumento adatto. La videoscrittura ha agevolato la possibilità di mettere in ordine il filo delle idee fino al livello delle singole frasi rispettando le regole della lingua. Guccini mi ha confessato di essere diventato scrittore non tanto per passione, ma proprio perché ha avuto lo strumento che gli ha permesso di fare ordine. Uno dei casi in cui lo strumento ha generato lo scrittore, in questo caso.

od: Il rovescio della medaglia è costituito da un esercito di dattilografi che si credono scrittori.

MF: Il fattore discriminante è quello culturale: ogni volta che ci impossessiamo di uno strumento nuovo dovremmo dimenticare i risultati immediati che ci consente di ottenere e rivolgerci a quell'elemento staminale che è la nostra cultura. Nel caso di Guccini parliamo di una persona che aveva un background culturale sufficientemente profondo e i suoi libri riguardano una zona nella quale è radicato profondamente, quindi il risultato è uscito in modo tutto sommato facile.

od: Trasferendo questo discorso alla fotografia...

MF: Mi capita spesso di tenere dei corsi base di fotografia, ai quali mi presento immancabilmente con una ventina di libri che hanno attinenza con letteratura, filosofia e immagine: per esempio la Piccola Storia della Fotografia di Walter Benjamin o La Camera Chiara di Roland Barthes, filosofo che si è occupato della fotografia nei suoi contenuti. Suggerisco di leggere Lewis Carroll, prete di comodo e grande fotografo; di visitare le mostre di Giovanni Verga, verista e anch'egli valente fotografo; di approfondire la conoscenza di autori come Emile Zola e Georges Simenon. Ripeto sempre: costruite la vostra cultura, progettate il vostro scatto, muovetevi per ideare anziché per ottenere il risultato immediato, e le vostre fotografie usciranno benissimo. Non prendiamoci la briga di riempire le schede di memoria di gigabyte tanto per farlo, ma partiamo con un'idea importante e quindi progettiamone lo sviluppo.

(c) Mosè Franchi

od: Non a caso molti degli autori che hai nominato erano innanzitutto persone capaci di raccontare. La fotografia è uno strumento, la parola è uno strumento, quello che fa la vera differenza è avere l'idea e il linguaggio per raccontarla. A proposito di idee e strumenti per svilupparle, tu hai scritto un libro di racconti e immagini di ambientazione appenninica, tra l'altro con una collaborazione importante come quella di Gianni Berengo Gardin. Un progetto che merita di essere raccontato.

MF: Provo un enorme amore per l'Appennino tosco-emiliano, territorio nel quale sono nati mio padre e mio nonno e al quale io stesso sento di appartenere con una fortissima attrazione. Avevo presentato a Berengo Gardin la mia idea di raccontare questi luoghi attraverso le immagini e le storie della ferrovia Porrettana sottoponendogli il progetto iniziale di una mostra accompagnato da una decina di libri che parlavano di quelle zone. Gianni si è lasciato coinvolgere, a dimostrazione che le idee contagiose trovano seguito, e ha continuato a frequentare il teatro del progetto per tre anni finché nel 2009 abbiamo presentato la mostra La Porrettana in cinque amici insieme con Davide Ortombina, Donatella Pollini e Massimo Zanti, mentre quest'anno è uscito il libro La Ferrovia Transappenninica: il Viaggio, il Territorio, la Gente che riunisce una selezione di fotografie con i miei racconti ambientati lungo quella storica linea ferroviaria.

od: Data la presenza di Gianni Berengo Gardin dubito però che si sia trattato di un progetto completamente digitale.

MF: Ciascuno ha lavorato con gli strumenti che preferiva, e questo ha significato il digitale nel mio caso e l'analogico per Gianni. Indubbiamente ricorrere al digitale mi ha aiutato accorciandomi la strada, se avessi dovuto muovermi solo con gli strumenti della generazione precedente avrei fatto più fatica e i tempi si sarebbero dilatati notevolmente. Ma nonostante la sua dichiarata, totale fedeltà all'analogico, Gianni non ha rifiutato il mio digitale in quanto tale: quando gli ho sottoposto le mie prime dieci stampe mi ha detto che in realtà quello che gli interessava vedere era tutta la serie di scatti effettuati per capire come avessi lavorato sui soggetti che avevo scelto, cosa ci avessi raccontato intorno e perché li avessi scelti. Non importava se si trattasse di digitale o analogico, voleva vedere i provini e non una stampa che è già frutto di un processo di selezione. E il risultato di questa sua attenzione è stato che, pur col digitale, alla fine io ho scattato meno foto di lui, presentandomi alla mostra con 17 foto tratte da 73 scatti totali. Questo perché Gianni mi ha spinto a ripartire da zero pensando innanzitutto a come comporre la scena, a costruire più ingredienti, a definire una mia idea di fotografia standard. Seguivo una sceneggiatura su carta, quindi scattavo solo dopo che l'idea fosse adeguatamente sviluppata e pronta. Certo, non che costruissi solo scenicamente, a volte sfruttavo anche quello che vedevo: però sempre andando a caccia del “mio” scatto. Una conseguenza curiosa: rispetto alle altre fotografie destinate alla mostra, le mie presentano un maggior numero di persone e meno paesaggio, vi sono più ritratti ambientati e molti più personaggi – anche se questo ha significato dover inseguire tutti quanti per ottenere le liberatorie, una vera faticaccia che mi ha anche costretto a scartare delle immagini meravigliose solo perché mancava il famoso pezzo di carta.

od: Hai definito la tecnologia digitale come una scorciatoia. Come ti ha aiutato in un progetto di questo tipo?

MF: Mi piace ricordare una bella definizione di Ferdinando Scianna: il digitale è come l'ascensore, le scale fanno bene alle vene varicose ma tutti usiamo l'ascensore per andare al quinto piano. L'importante comunque è arrivare al quinto piano, come ci vai sono fatti tuoi. Lo strumento digitale ti offre una strada più veloce, semplifica le cose e ti permette di dedicare più tempo a quello che sta davanti all'obiettivo. Soprattutto, il vantaggio del digitale è che ti permette di vedere l'intera catena del valore dall'idea fino alla stampa, permettendoti di seguire ogni passo di un progetto avendo chiaro davanti a te il risultato finale. Una volta ci si fermava alla prestampa, dopodiché tutto era in mano al fotolitista. A ben vedere oggi esiste ancora un ultimo limite dovuto al fatto che si scatta in RGB per poi stampare in CMYK: ma è un ostacolo comunque risolvibile, a patto di fornire la ricetta appropriata. Sfruttiamo allora questa conquistata visibilità della catena del valore: allora, per esempio, anziché proiettare serialmente 700 foto all'amico che ci odierà per sempre, iniziamo a provare a selezionare e impaginare le nostre foto in un libro per capire quale ritmo riusciamo a dare, quale racconto riusciamo a estrarre.

od: Esiste però il rischio molto concreto (e molto sentito da tanti fotografi) di invischiarsi nella postproduzione, ambito nel quale il digitale ha aperto vere e proprie autostrade in cui è facile perdersi.

MF: Quando tengo dei corsi suggerisco sempre di usare quel che si vuole – auto, manuale, priorità... – ma una volta che si è compiuta una scelta bisogna farla diventare un punto di non ritorno e andare avanti. Non ti nascondo che io scatto in modalità Program, naturalmente valutando se le scelte della macchina corrispondano a quelle che mi servono, perché si tratta di un'altra scorciatoia che mi permette di concentrarmi su altro. Trovo che la parte di tecnica fotografica debba essere una percentuale minima del lavoro, il resto dovrebbe essere progettualità, ideazione delle scene, ricerca dei personaggi e dei punti di scatto, insomma l'impalcatura della storia che vuoi raccontare. Sfruttiamo la possibilità che il digitale ci offre per ricreare un ritmo diverso non dipendendo più dalla serialità della pellicola. Soprattutto, non usiamo gli strumenti per ricavarne dei risultati a breve ma proviamo a trovarne i vantaggi linguistici e sintattici per metterli al servizio di una narrazione.

od: Quindi bisognerebbe trovare il tempo di posare la macchina fotografica e imparare a padroneggiare anche altri linguaggi e modelli.

MF: Leggere, leggere tanto: il fattore culturale è essenziale. È impossibile affrontare un argomento come, che so, la moda senza conoscere la storia della foto di moda, senza sapere come si scattava un tempo e perché, e attraverso quale percorso e quali motivazioni si è arrivati al genere di fotografia di oggi. Questo perché la moda fa parte del pensiero del momento: pur effimera, non è scollegata da quanto accade intorno a sé, e fotografarla significa saper esprimere anche lo spirito del tempo. Non a caso il polmone storico della foto di reportage è proprio lo stesso della moda, quell'area mitteleuropea che è stata fucina di grandi pensatori e giganti della foto e del cinema.

od: Oggi però il baricentro pare essersi spostato al di là dell'Atlantico, dai riferimenti culturali fino al semplice numero di appassionati (e volumi di mercato).

MF: L'America ha sempre avuto la capacità di rendere consumer il prodotto, di saperlo sgretolare per poi venderlo sul mercato. In generale non è un caso che la fotografia sia nata in Francia da tanti padri, e che poi la rivoluzione del rullino di pellicola sia nata in America: anche per motivi distributivi – grandi quantità di potenziali clienti da servire attraverso distanze infinite – ecco che la lastra viene soppiantata da un'alternativa più pratica. Oppure guardiamo le agenzie giornalistiche: all'epoca quelle più importanti erano quelle tedesche, con la loro fotografia dinamica e in movimento, in un periodo in cui in America il primo Life era ancora statico e di maniera. La fucina del cambiamento era in Europa, Life vi si è adeguato adottando lo stile tedesco e da lì è nato quel successo mondiale che tutti conosciamo.

od: Gli americani hanno mezzi per dare spazio e pane a chi ha idee, mentre qui le difficoltà sono nettamente superiori.

MF: Non solo: gli americani hanno anche grande rispetto per gli avvenimenti e l'aneddotica: basti guardare come la filologia cinematografica sia sempre corretta con un'estrema cura del dettaglio e di conseguenza la confezione di prodotti di altissimo livello. Prendi per esempio un film ambientato ai tempi del Vietnam e farai caso che il taglio dei vestiti è quello dell'epoca, gli oggetti maneggiati dagli attori sono di quel periodo e così via. Anche in un film di puro intrattenimento come Notte al Museo 2 personaggi, divise e dettagli sono filologicamente corretti.

(c) Mosè Franchiod: Questo citare continuamente anche la semplice vita quotidiana è forse dovuto a background più limitato del nostro, che li porta a valorizzare qualunque appiglio storico a partire proprio dei dettagli. Noi che viceversa ne abbiamo fin troppo, viviamo col nostro background un rapporto un po' schizofrenico: ci arricchisce e ci limita nello stesso tempo.

MF: Nel cinema e nella fotografia, ovunque ci sia immagine, dobbiamo fare i conti con una componente culturale antichissima. Il punto di svolta si trova secondo me al tempo della Riforma e della Controriforma: nell'area cattolica si continua a poter decorare le statue di santi e Madonne, mentre nei Paesi protestanti la riforma luterana conduce all'iconoclastia. Questo ha influito enormemente sullo sviluppo delle arti figurative per i secoli successivi, ed è ovvio che la fotografia sia stata salutata come un momento di libertà laddove per lungo tempo ci si è dovuti accontentare di chiese spoglie. Qui abbiamo avuto Michelangelo e infiniti altri grandi artisti, ma poi ci siamo avvitati sulle contrapposizioni tra cosa è giusto e cosa è sbagliato, se l'immagine ammazzi la pittura e così via. Altrove i fotografi si sentono portatori di verità, mentre qui da noi ci sono indubbiamente passione e cultura ma anche un approccio un po' provinciale.

od: L'immagine prodotta dai Michelangelo era costosa, dipendeva pertanto da una committenza e dai relativi vincoli. Quanto incide sulla fotografia di oggi questa storica abitudine al dominus, un meccanismo che spesso scatta automaticamente anche in altri campi intellettuali?

MF: La nostra storia dimostra come di tanto in tanto vi sia un bisogno di dominus per molte cose: quindi questa figura fa indubbiamente parte del nostro trascorso sociale, vuoi per convenienza, vuoi perché siamo sempre stati un popolo invaso e così via. L'immagine ha sempre avuto un patrono, e storicamente ci siamo abituati a committenze (anche strapagate, proprio recentemente leggevo i compensi percepiti da Michelangelo per decorare la Cappella Sistina ed erano somme da capogiro) con vincoli molto forti. Anche oggi vediamo fotografi di valore che nascono come espressione culturale pura per poi venire a patti e piegarsi a certi dominus “di impronta”, non solo monetari. C'è comunque da ricordare che se la committenza dà pressioni tanto più è danarosa, è altrettanto vero che essa fornisce anche mezzi e, di conseguenza, professionalità. Il dominus ha creato orticelli di lavoro, ma da alcuni di questi sono usciti risultati di tutto rispetto come nel caso del neorealismo italiano, sia nel cinema che nella fotografia. Diciamo che l'importante è la coerenza, se un autore ha pensieri e parole coerenti con circostanze, valori e cultura allora il suo prodotto uscirà bene nonostante la “dittatura da committenza”.

Mosè Franchi et al., La ferrovia transappenninicaod: Paradossalmente, un articolo apparso recentemente su Salon parla di un possibile ritorno in auge della figura dello sponsor (mecenate o committente che sia) per gli scrittori come soluzione di fronte al crollo verticale dei prezzi degli ebook, un mezzo inizialmente salutato come occasione di indipendenza per ogni autore. E a proposito di ebook, quale impatto pensi possa avere sulla fotografia in genere?

MF: L'ebook rappresenta un'evoluzione importante che reca con sé una cesura generazionale forte. È un tema che mi affascina molto e aspetto con ansia l'ebook nella sua massima espressione – ovvero quando sfrutterà l'opportunità di abbinare fotografia e letteratura in maniera molto più consona di quanto non siamo abituati oggi. Parlo di avere un patrimonio di immagini legate ai temi del racconto scritto secondo una struttura che realizzi due piani narrativi che non si tocchino ma si rinforzino l'un l'altro. Vorrà dire vivere un racconto in doppia emozione, in emozione stereo. Il rischio opposto è invece la nascita dei nuovi fotoromanzi...

od: Rischio abbastanza realistico, considerando come il pubblico sia sempre meno abituato a leggere sul serio. Ricordiamoci riviste come “Epoca”, con i suoi grandi reportage realizzati tanto con la penna quanto con l'obiettivo. A guardare l'editoria di oggi sembra che nessuno sia più in grado di seguire più di una cartella di testo, preferibilmente spezzettata in didascalie.

MF: Nelle riviste come Epoca la didascalia era la cosa meno letta, oggi invece tutto è didascalia. L'ebook potrebbe aiutarci a invertire la rotta raddoppiando o triplicando le emozioni. Pensa ai gialli di Maigret, accompagnati da copertine con foto d'autore. Sembra, ma è un “si dice”, che Georges Simenon (non a caso un fotografo) sia stato il primo a scegliere una fotografia come illustrazione per la copertina dei suoi libri: e la foto rafforza il racconto, dà un tono al libro. Ecco, rispetto al libro tradizionale l'ebook non offre una riconoscibilità delle emozioni, non comunica fisicamente il senso di quello che stai per andare a leggere. In questo senso l'ebook è una stanza asettica che può diventare improvvisamente qualunque cosa, e quindi dovrà riuscire a fornire una “emozione d'entrata”. Adesso vedi un libro, lo prendi in mano e ti fai già un'idea di cosa ti aspetta, tanto che un volume confezionato in modo opportuno può suscitare un impulso alla lettura: l'ebook dovrà colmare anche questo aspetto, ma intanto apriamo le porte all'innovazione. L'importante, ancora una volta, sarà fissare i punti di non ritorno e anteporre sempre il pensiero all'azione; creare progetti forti, idee forti; essere mossi da una motivazione. La differenza, alla fine, ruota sempre intorno a questi elementi.

Le fotografie a corredo dell'articolo sono state gentilmente concesse da Mosè Franchi.

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