G come Giacomelli, MarioFotografia significa - etimologicamente parlando - incidere, disegnare, scrivere con la luce. Pochi fotografi lo hanno fatto con l’incisività e il tocco poetico di Mario Giacomelli, nato a Senigallia nel 1925 e a Senigallia morto nel 2000. Volontariamente ignorante dell’arte della fotografia e delle sue varie tendenze, sempre in giro con un apparecchio fotografico senza molte pretese (pare utilizzasse una Kobell tenuta insieme da nastro adesivo), Giacomelli ha saputo dar forma a un universo onirico a tratti anche poetico; tra l’altro lui stesso, oltre che scrivere con la luce, scriveva poesie e sicuramente questo suo modo di essere e di percepire il mondo ha inciso sul suo modo di fotografare.

I suoi soggetti sono spesso neorealisti: ospizi, luoghi sacri come Lourdes, seminaristi, villaggi, mattatoio (uno, uno soltanto e questo lavoro non fu mai più replicato perché, come lui stesso dichiarò sul retro di una delle stampe, si trattò di una «serie iniziata e finita in pochi minuti per il grido spaventato, pauroso, dei poveri animali che mi hanno straziato l’anima e mi hanno portato a scappare da quel posto maledetto (…) Queste bestie, che capiscono tutto, si accorgono che vengono uccise. Questa volontà di fuga dimostra ancora una volta la cattiveria umana: si vede quando le colpiscono, le prendono per forza e le portano lì. Mi facevano soffrire quanto soffrivo all’ospizio oppure a Lourdes»).

Ecco, sarebbero sufficienti queste frasi per amarlo, ma Giacomelli non si limitava ad essere profondo scrutatore dell’animo umano soltanto con le parole: lui seppe andare oltre, seppe testimoniare, attraverso i suoi scatti, la tristezza della vecchiaia, il tempo che scorre inesorabile, la brutalità della morte, in una parola la tragedia del vivere e di queste tragedie quotidiane ne ha fatto delle icone dell’immaginario.

Per Mario Giacomelli la fotografia non era altro che un modo di scrivere, come la pittura (poiché era anche pittore) o la poesia; un modo di narrare la condizione umana attraverso le sue fotografie, rigorosamente in bianco e nero.

La critica sostiene che Giacomelli è stato il fotografo delle ferite dell’animo umano, ma anche colui che è riuscito a fermare in uno scatto la poesia dentro uno sguardo, dentro una foglia d’autunno o ancora dentro l’odore della terra. Qualcuno disse addirittura che tra rivolta e tenerezza, tra realismo - a tratti addirittura iperrealismo - e astrattismo, nell’alambicco del suo bianco e nero ipercontrastato, Giacomelli ha edificato un’opera angosciata, che è al contempo un grido sovraccarico di pathos e un delirio poetico. «Il bianco è il nulla e il nero sono le cicatrici», così diceva lui.

Per Mario Giacomelli la fotografia era l’unico modo per fermare il tempo almeno per un istante e in quell’istante eterno troviamo i suoi seminaristi gioiosi nella neve, la sofferenza universale dei pellegrini a Lourdes, il dolore incolmabile delle bestie al macello e, capolavoro assoluto, gli abitanti di Scanno, il piccolo paese tristemente salito alle recenti cronache per il terremoto d’Abruzzo del 2009, ma che sarà però sempre ricordato proprio grazie al bianco e nero in cui lo ritrasse negli anni ’50 del secolo scorso.

Ora Giacomelli è universalmente riconosciuto come grande fotografo e artista, nel senso che le sue fotografie sono collezionate, vendute ed esposte in tutto il mondo come opere d’arte. Vale però la pena ricordare che quando lui fotografava (fra gli anni Cinquanta e Sessanta del ‘900), in Italia la fotografia non era ancora accettata come forma d’arte e dunque Giacomelli, per vivere, dovette continuare a fare il tipografo; questo probabilmente perché, come sosteneva lui stesso, «la materia di cui è fatto l’uomo è una pena bianca senza rimedio».

Data di pubblicazione: luglio 2015
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