Fuori Fuoco

Appunti per un esercizio da rinnovare nel tempo

Giuseppe Carrieri

Un esploratore che si intendeva di vertigini e cieli siderali da annusare osava dire che chi più in alto sale, più lontano vede. E chi più lontano vede, più a lungo sogna.

E la verità, in fondo, è che, all’Università IULM di Milano, ai miei studenti del Laboratorio di Regia Avanzata, al secondo anno della Laurea Magistrale in Televisione, Cinema e New Media (indirizzo cinematografico) è stato chiesto proprio questo: sollevarsi, come levitare, quindi arrampicarsi sempre più in alto e fare di questo loro benedetto (e a volte rinnegato) sguardo un trono, il segno tangibile di chi sa gridare al futuro il vento che si porta dentro, e a lungo sogna.

Certo, sogna.

La prima necessità di chi comunica a qualcuno qualcosa è saper fare della propria condivisione un’emozione memorabile, perché saper raccontare non è solo un’abilità che si offre, ma è piuttosto un dono che, alla fine, salva gli altri che ti guardano. Bisogna che la gente impari a ricordarsi di te.

Così in questa galleria che ammirerete nella finestra regalataci, alla fine, vi affaccerete tra i portici di occhi scintillanti e, se sarete attenti, scruterete primi passi, magari ancora timidi, ma pur sempre passi indispensabili. Perché, come si sa, il primo passo magari non ti porta dove vuoi, però, intanto, ti toglie da dove sei. E così nasce la storia di questa costellazione, frammenti appesi come profezie, e mistero dappertutto. La selezione che arriva ai vostri occhi rispecchia solo alcune di queste porzioni di sguardo, ne è una sorta di mappa essenziale, per merito degli autori che hanno coniugato al meglio, rispetto al compito assegnato, la licenza di interpretare un’idea di bellezza inattesa.

Domenico Ricucci, “Da aprire dopo la mia morte”

C’è Domenico Ricucci, che con “Da aprire dopo la mia morte” inscena un atto sospeso in cui prende vita una fiamma che consuma una storia, forse un testamento, magari una lettera d’addio o un messaggio d’amore. E lo fa costruendo sapientemente ombre e riverberi, lanciandoci addosso come frecce le iridi scintillanti di due protagoniste credibili, nel vuoto di una stanza che può essere qualsiasi stanza.

Marta Erika Antonioli, “Mio papà l’hanno ucciso in un viale come questo”

C’è Marta Erika Antonioli, che con “Mio papà l’hanno ucciso in un viale come questo” ci spiega quanto è profonda una vita, ci ricorda l’importanza del voltarsi, di saper indirizzare uno sguardo indietro, di lasciarlo correre, correre e farlo arrivare chissà dove. Non importa che sia, come da lei stessa immaginato, in un territorio di guerra o che sia in un angolo di spensieratezza: quel bambino si volta. E guarda, e aspetta. Un’intera infanzia può essere così. Marta ce lo ricorda con la sua poesia dentro.

Eleonora Trebastoni, “Mostri sotto il letto – Le mani di chi mi ha abbandonato”

C’è Eleonora Trebastoni, che con “Mostri sotto il letto – Le mani di chi mi ha abbandonato” realizza una scenografia di credibile terrore con la presunzione, santa, di acconciare il tutto con un letto, un lenzuolo e delle mani tese che sbucano da chissà quale regno nascosto. Ed è il camuffamento che va oltre il reale, per farsi possibile, che ci spinge a vedere che nel suo sguardo c’è il saper “far distanza”, c’è l’arrampicata con cui abbiamo iniziato questo testo.

Luca Massimo Garavaglia, “Un giovane medico dona la morte, ma se ne innamora”

C’è Luca Massimo Garavaglia, con “Un giovane medico dona la morte, ma se ne innamora”: uno spettro, un abisso tra quattro mura e il labirinto di uno specchio, l’ambizione di dire tanto e tutto con lo sguardo perso di una silhouette in scena che ha addosso la coscienza della fine, e da quella ricomincia.

Francesco Carlo Lorenzini, “Ultimo desiderio”

C’è Francesco Carlo Lorenzini, a cui con “Ultimo desiderio” basta il nervo teso di una mano in rampa di lancio, di fronte un altare domestico e un ritratto di chissà chi per allestire la trama di un sacrificio, o forse, di un martirio. E’ una visione semplice, non facile, eppure quella mano ci dice che da qualche parte dovremo seguirla ed è un incantesimo che, non si da dove, da qualche parte si aziona.

Elena Vassena, “La Strada”

C’è Elena Vassena, a cui le linee tratteggiate di una cucitura ricordano una strada da percorrere e, allora, ecco il suo trono, il segno tangibile di chi più a lungo sogna, oltre le proprie paure.

Giuseppe Verdi soleva dire che “Copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è molto, molto meglio”. Per me più che un credo, è un pre-sentimento, ed è tutto quello che conta. Non dimentichiamo che possiamo tutto, noi siamo tutto, e la nostra risorsa d’anima frazionata in mille distrazioni e deviazioni, proprio lei, ci spalanca la vetta che da, qualche parte, nascosta, dispersa, sfocata tra le perdute lacrime, ci chiede solo di salire. Salire lì dove lo sguardo sa farsi alto e noi, per quanto cellule infinitesimali, squarciamo il cielo e le altre stelle.

Data di pubblicazione: dicembre 2018
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