Frank Horvat è indiscutibilmente uno dei maestri della fotografia ancora viventi. Classe 1928, italiano di nascita ma divenuto croato per destino storico in quanto nato ad Abbazia (all’epoca città italiana poi passata alla Croazia), e francese d’adozione per scelta. Recentemente ho ascoltato una serie d’interviste da lui rilasciate al canale radiofonico “France Culture”, che gli ha dedicato un’intera settimana di programma radiofonico in cui lui si è raccontato e messo a nudo con arguzia e simpatia.
Horvat è stato fra i più importanti fotografi del secolo scorso e ha conosciuto mostri sacri come Henri Cartier-Bresson e Robert Capa ma, nonostante l’età, ha saputo guardare avanti, non si è fermato al secolo breve, è andato oltre e si può tranquillamente dire che oggi come oggi appartiene a questo nuovo millennio nel quale è entrato attivamente facendo evolvere il proprio lavoro e adattandolo alle nuove sfide contemporanee.

È stato il primo fotografo a creare un proprio sito web, nel 1996, a dimostrazione che ha sempre saputo guardare avanti e adattarsi ai cambiamenti del mondo intorno a lui. Ha iniziato a fotografare con una Retinamat di seconda mano ricevuta in cambio della sua collezione di francobolli; poi, nel 1949, con una Rolleicord al collo, si è buttato nella mischia e ha iniziato a lavorare come free-lance, attività che lo ha portato in giro per il mondo facendolo in seguito approdare prima a Londra, dove ha collaborato con la rivista “Life”, e poi a Parigi, città in cui ha incontrato Cartier-Bresson, l’uomo del destino: è stato infatti Bresson a convincerlo ad usare una Leica e a fare un viaggio nel continente asiatico, viaggio che gli ha cambiato la vita poiché gli scatti di quei due anni lo hanno portato ad essere esposto al MOMA di New York.

Horvat è sempre stato un fotografo eclettico, si è dedicato alla fotografia di viaggio ma anche ai reportage, e negli anni Cinquanta non ha disdegnato nemmeno la fotografia di moda che, anzi, gli ha dato diverse soddisfazioni. Il suo però è stato un approccio molto personale: infatti anche nella moda, settore della bellezza per eccellenza, ha sempre messo in primo piano una ricerca e un’attenzione all’estetica tout-court portando in quel mondo patinato uno sguardo che gli derivava dalla sua esperienza di fotografo di reportage e quindi trasmettendo una visione più realistica e meno manierata, cosa estremamente nuova e moderna per quell’epoca.

Per lui la fotografia è un modo di fermare il tempo ma, col trascorrere degli anni, si è reso conto che non sempre l’istante va fermato; sostiene che siamo sommersi da milioni di foto e occorrerebbe saper dire a se stessi “questo no, non va fotografato”. Infatti è sua la celebre frase: “La fotografia è l’arte di non premere il bottone”.

Lui stesso per un po’ il bottone non lo ha premuto per via di un delicato problema agli occhi che non gli permetteva più di vedere bene. In quel difficile periodo aveva rinunciato a scattare ma non si era certo allontanato dalla fotografia, non avrebbe mai potuto, dal momento che la fotografia è la sua vita, è un rapporto simbiotico: qualora cessasse l’una cesserebbe anche l’altra. Poiché non poteva più scattare foto, pensò di fare un libro in cui raccontava il lavoro di altri fotografi, di colleghi che aveva sempre ammirato e che decise di incontrare durante un lungo lavoro trascorso in giro ad intervistarli uno per uno. La più parte dei fotografi da lui contattati accettarono di farsi intervistare, uno solo disse di no: Cartier-Bresson, e questo perché volle rimanere fedele al suo ideale di fotografo invisibile.

Ad un certo punto Horvat si rese conto che la vista offuscata gli dava la possibilità di vedere il mondo sotto un’altra luce e poteva fare delle fotografie diverse e quindi riprese a fotografare, proseguendo quello che è sempre stato il filo conduttore del suo lavoro: mostrare la bellezza di tutto, anche di ciò che bello non è, continuando così nella ricerca di una vita, la ricerca della chiave di lettura della bellezza.

Ancora non l’ha completamente trovata, così come ancora non ha colto completamente l’attimo decisivo e per questo motivo continua a fotografare, a lavorare con il digitale e con Photoshop (che lui non disdegna perché lo ritiene il futuro della fotografia e sostiene che anzi, occorre una particolare bravura per fare degli ottimi ritocchi e per passare ore e ore sul computer, così come un tempo si passavano giornate intere nella camera oscura).

I suoi 86 anni sono anagrafici, ma la mente è ancora sveglia e aperta al futuro come quella di un ragazzo. A proposito di futuro, lui sostiene che il reportage sia morto, superato, che occorra trovare nuove vie, inventarsi nuove forme di confezionamento di una storia. Se lo dice lui, c’è da credergli.