Se dico Emmanuel Radnitsky, a molti di voi non verrà in mente nulla; ma se invece dico “Man Ray”, subito vi si accenderà una lampadina. Man Ray è però in realtà uno pseudonimo che lui stesso si scelse intorno ai primi anni dieci del Novecento; letteralmente significa “uomo raggio” e la locuzione latina nomen omen (che vuol dire il nome è un presagio), non fu mai tanto azzeccata. E lo fu perché più tardi Man Ray scoprì una tecnica - quella per cui è maggiormente ricordato - chiamata solarizzazione.

A voler essere pignoli, la solarizzazione (che è un’inversione tonale che si produce durante lo sviluppo di materiale sensibile che è stato soggetto a una sovraesposizione esasperata) era già stata scoperta dai dagherrotipisti. C’è poi anche un altro fenomeno simile alla solarizzazione propriamente detta, che è chiamato effetto Sabattier o pseudosolarizzazione: lo descrisse per la prima volta Armand Sabattier nel 1862, ma di fatto fu Man Ray a rendere famosa questa tecnica che si ottiene in camera oscura.
Sul procedimento ci sono pagine e pagine di descrizione, quello che però è importante sottolineare qui è che Man Ray ne fece un’arte fotografica dimostrando la sua capacità di fare della fotografia una delle forme espressive dell’avanguardia, di cui fu sicuramente un pioniere.

Man Ray era nato a Philadelphia da una famiglia di immigrati russi di origine ebraica, ma crebbe a New York dove rifiutò una borsa di studio in architettura per dedicarsi completamente all’arte. Nel 1914 acquistò la sua prima macchina fotografica per fotografare le sue opere; infatti inizialmente Man Ray fu principalmente un disegnatore (dipingeva aerografie). Nel 1915 fece l’incontrò che gli cambiò la vita: un collezionista lo presentò a Marcel Duchamp di cui divenne grande amico e con cui formò il ramo americano del movimento Dada.

Man Ray era un irriducibile sperimentatore e un iconoclasta, e quindi fu inevitabilmente attratto dallo spirito irriverente del dadaismo. Fu proprio attraverso il movimento dadaista che Man Ray si avvicinò alla fotografia come mezzo espressivo, come strumento per creare arte, e a quel periodo risalgono i suoi primi lavori quali Man e Woman, del 1918.
Queste fotografie mettono in luce l’uso provocatorio che egli faceva della macchina fotografica come strumento concettuale, mentre fino ad allora era stata vista prevalentemente come mezzo documentario.

Man Ray e Salvador Dalì | Osservatorio DigitaleIntorno al 1920 Marcel Duchamp tornò a Parigi e Man Ray lo seguì, anche perché erano entrambi convinti che il movimento Dada non potesse vivere a New York: la sua patria era l’Europa, all’epoca terreno fertile per le avanguardie molto più degli Stati Uniti. A Parigi la macchina fotografica fu per Man Ray un biglietto da visita per entrare nei circoli artistici delle avanguardie, in quelli della moda e per conoscere le celebrità. Il suo successo parigino in un primo momento fu dovuto alla sua abilità nel proporsi come fotografo di personalità famose nel campo della letteratura, dell’arte e della cultura in senso ampio del termine: era bravissimo soprattutto nei ritratti e il suo studio fotografico era frequentato da tutti coloro che desideravano un ritratto diverso, inusuale, in una parola “artistico”.

Lui stesso, nei suoi scritti raccolti in italiano da Abcondita con il titolo “Sulla Fotografia”, nella collana Carte d’Artisti, ci offre una testimonianza del periodo in cui il suo studio era frequentato dalla cosiddetta Parigi bene: “Ho sempre avuto ripugnanza per il concetto di critica, di valutazione. Tuttavia, tornando col pensiero agli anni Venti devo confessare che, pur cercando il più possibile di sospendere il giudizio e di restare imparziale, provai attrazioni e ripulsioni, il che era senza dubbio dovuto alla situazione in cui mi trovavo. Avendo aperto uno studio nel quale, per sopravvivere, avevo cominciato a praticare la discutibile arte della fotografia, fui assediato da persone di ogni genere, che venivano da me come se fossi un dottore, sperando che le avrei curate con l’adulazione dai loro complessi d’inferiorità, o più semplicemente perché avevano bisogno di una foto, come se andassero dal panettiere e dal macellaio a comprare il pane e la carne. (…) In quel periodo ero sommerso di lavoro; ogni aspetto della vita contemporanea veniva da me per esser documentato. Scrittori, pittori, musicisti, esponenti dell’alta società, personaggi alla moda, celebrità, tutti si misero in posa davanti alla mia macchina fotografica”.

Man Ray ebbe sempre un rapporto molto sfaccettato con la fotografia, un rapporto che si riassume nelle sue stesse parole: “Io non fotografo la natura, fotografo la mia fantasia”. Indubbiamente è proprio la sua fantasia ad aver fatto di lui l’artista Man Ray e non soltanto un semplice fotografo registrato all’anagrafe come Emmanuel Radnitsky.

Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale dovette far ritorno negli Stati Uniti ma, anche se in America partecipò ad un certo numero di mostre, nella sua terra natale si sentì sempre incompreso: Nemo profeta in patria è probabilmente un’altra locuzione latina che ben gli si addice.